Avere “grip” su una classe non è sempre facile, cerchiamo di capire come si può, a partire dalla scelta delle parole da usare con ragazzi e ragazze.

 

Una parola non vale l’altra, anche se i significati possono coincidere. Dietro (e dentro) a ogni termine che si sceglie di dire, c’è un piccolo universo di simboli, reazioni, narrazioni e conseguenze che è importante conoscere. Per chi insegna, la scelta delle parole è fondamentale per creare il clima giusto in classe. Ne abbiamo parlato con Paolo Borzacchiello, uno dei massimi esperti in materia, docente, autore di libri e saggi, che in questi mesi porta in teatro la magia e la scienza delle parole, facendo il tutto esaurito. Con Paolo abbiamo esplorato anche i territori del coinvolgimento e dell’interesse, in una chiacchierata ricca di spunti e suggestioni.

 

D: Sappiamo che le parole hanno un effetto sia per chi le usa, sia per chi le ascolta, da una parte attivano narrazioni, dall’altra hanno un portato neurofisiologico. Se chi insegna volesse documentarsi per capirne un po’ di più, da dove potrebbe cominciare?

R: Sicuramente dalla linguistica cognitiva, dai concetti principali sviluppati nel corpus di opere di Lakoff1. La linguistica illustra cosa succede nel cervello quando si usano certe parole e acquisire queste nozioni è la base per tutto ciò che viene dopo, come le reazioni biochimiche. Fra tutte la teoria dei frame2 è la più importante se parliamo di parole. Poi la comunicazione in senso stretto, a partire dai lavori di Paul Grice3, per capire quello che succede quando interagiamo con le persone che ci ascoltano.

 

D: Il mondo dell’istruzione si trova a dover conquistare ogni giorno l’attenzione dei ragazzi e delle ragazze. Che consigli puoi dare a chi insegna, per raggiungerli e suscitare poi interesse?

R: Attenzione e coinvolgimento sono due cose differenti perché implicano, anche dal punto di vista dei mix chimici all’interno del corpo, meccanismi molto diversi. L’attenzione richiede adrenalina e una piccola dose di cortisolo, in questo senso un po’ di stress è positivo, come è positivo essere consapevoli che a scuola può capitare di prendere un brutto voto.  In alcuni casi un approccio disruptive può essere vincente, e lo dico da docente; una volta, per esempio, ho iniziato il mio intervento in aula dicendo: “Potete avere il curriculum più figo di questo pianeta, potete avere un 110 e lode stampato sul diploma di laurea ma se non sapete convincere il vostro esaminatore in 30 secondi, tutto questo è spazzatura: non vi assumeranno perché siete più bravi, vi assumeranno perché siete più bravi a comunicarlo”. Ho avuto istantaneamente la loro attenzione in virtù di quel meccanismo che si chiama “avversione alla perdita4, che la psicologia ha ampiamente sdoganato. Per avere attenzione bisognerebbe lavorare un po’ anche su queste leve motivazionali endogene perché l’essere umano è progettato per cadere e per rialzarsi, se non cade non può rialzarsi; se non sperimenta la sconfitta non può crescere ed evolvere come persona. Se non si vive la krisis di cui parlavano i Greci, non si può migliorare. Si tratta di un meccanismo adattivo che ha bisogno di un po’ di ormoni dello stress per farci superare gli ostacoli: siamo qui oggi a raccontarcela perché i nostri antenati hanno avuto paura di morire di fame, ergo si ottengono buoni voti anche perché si ha timore di prenderne di brutti.

C’è poi l’altra parte della domanda, che riguarda il coinvolgimento, e qui chi insegna deve stimolare il sistema limbico, ossitocina e serotonina. Chi è in classe deve potersi fidare. Posso suggerire di approfondire il concetto di “empatia cognitiva5, non parlo dell’empatia in senso tradizionale ma della capacità di riuscire a capire che per stimolare la motivazione non si può dire: “Studia perché ti sarà utile”; per attivare la partecipazione serve tradurre quello che si insegna in un frame, un contesto rilevante e familiare per chi ascolta. Pensiamo a che effetto può avere introdurre un argomento dicendo alla classe: “Adesso faremo qualcosa che potrà aiutarvi a migliorare le performance dei vostri video su TikTok”, certo non è quello il motivo per cui a scuola si studiano storia o matematica ma con questo espediente si può entrare in connessione, perché quello che si fa in classe si aggancia alla vita, tenendo presente che – lo si voglia o meno – appena suonata la campanella, ragazzi e ragazze si fionderanno comunque sui social.

 

D: Sei molto popolare e quando entri in aula ti trovi di fronte a persone che hanno aspettative altissime. Come gestisci questa pressione?

R: Non mi concentro sulle aspettative altrui, che sarebbe un grande errore. Mi chiedo invece in che modo posso rendere la loro vita straordinaria, in che modo posso dare il massimo, come posso farli innamorare delle parole.

 

D: Nella tua attività associ il rigore scientifico a una vena artistica sempre più importante. Quale di queste due anime ti permette di conoscere meglio le persone?

R: Esco dalla scelta: ciò che conosco l’ho imparato – e lo posso mettere in pratica – perché le due anime convivono. Parlo in maniera tecnica degli algoritmi linguistici ma se non conoscessi la Retorica di Aristotele non potrei farlo. La realtà è piena di queste “unioni”: l’Odi et amo di Catullo non è altro che una spiegazione intuitiva del meccanismo fisiologico del bilanciamento fra piacere e dolore. Il dialogo fra queste due anime mi permette, per esempio, di aiutare enti e istituti che hanno bisogno di comunicare dati in maniera efficace: i dati non contano, con i dati non convinci le persone, ma se sai come entrare in connessione con loro, allora anche i dati diventano significativi. E ancora: parlo di come il litio fissa la serotonina e contestualmente faccio cenno ad Aristotele; sentir parlare di questo straordinario filosofo e della sua corrispondenza chimica è qualcosa che colpisce e affascina le persone. Per come la vedo io superare la dicotomia tra le discipline soft e le scienze hard è oggi necessario più che mai.

 



1 George Lakoff insegna all’Università di Berkeley, California ed è cofondatore dell’Istituto Rockridge, è considerato uno dei più importanti linguisti contemporanei. I suoi studi sulla metafora come processo cognitivo son un contributo fondamentale alla comprensione del pensiero.


2 Il framing è ben illustrato nel saggio “Non pensare all’elefante” di George Lakoff: “Il framing è il trovare un linguaggio adatto alla nostra visione del mondo. […] agisce sul pensiero, sulla comprensione più profonda […] sulla parte inconscia, spontanea e immediata della nostra conoscenza: in altri termini, sul senso comune. Il cambiamento del frame produce esso stesso un effetto sistemico”.


3 Paul Grice ha sviluppato il principio di cooperazione, elaborando le celebri massime conversazionali. È stato docente a Oxford (dove ha collaborato con John Austin) e a Berkeley, e ha tenuto lezioni all’Università di Harvard.


4 Si tratta della naturale tendenza a valutare maggiormente importante una perdita rispetto a un guadagno del medesimo valore. Si classifica fra i cosiddetti bias (distorsione) cognitivi.


5 È la capacità di comprendere in maniera razionale il punto di vista e i sentimenti altrui, è diversa rispetto al concetto classico di empatia (definita “empatia affettiva”) che enfatizza invece il “sentire” come gli altri.