Come sostenere studenti e studentesse alle prese con la scelta universitaria in una società che pretende “tutto e subito”?

C’è una retorica dello studio – ormai desueta – che si sintetizza nella lettera del 1818 di Giacomo Leopardi in cui il celebre poeta parla del suo “studio matto e disperatissimo”. Per decenni in Italia l’opinione sul valore di una scuola ha preso le mosse dal “carico” di studio che veniva riversato sulle spalle di ragazzi e ragazze. Insomma, tutto ciò che è apprendimento, è storicamente legato alla fatica, al dolore, alla rinuncia, all’abnegazione. Si tratta di un vocabolario del sapere che oggi possiamo considerare inattuale, specie in quella che Anna Lembke, docente di psichiatria e scienze del comportamento a Stanford, ricercatrice e saggista di fama mondiale, definisce “Era della dopamina”.

Proporre l’università, vale a dire un percorso di fatica, una strada lunga anni, fatta di centinaia di ore da passare sui libri e difficoltà da superare, è arduo, lo sa bene chi insegna e fa orientamento universitario negli ultimi anni delle scuole superiori. Proviamo a capire i perché di questa difficoltà in un modo originale, leggendo il fenomeno attraverso l’analisi del rapporto fra piacere e dolore. Ad accompagnarci proprio la professoressa Lembke, che ci si è prestata gentilmente a fare qualche chiacchera con noi.

 

D: Ne “L’era della dopamina1”, il suo ultimo libro, lei riflette sulla dialettica piacere/dolore, sulle dipendenze e sui meccanismi della ricompensa. Che importanza hanno questi fenomeni nella nostra vita?

R: Sono fondamentali, hanno a che fare con una parte molto antica di noi e sono un elemento molto importante della nostra “dotazione” neurobiologica, dotazione che ci ha servito bene per milioni di anni di evoluzione ma che ora non si adatta così agevolmente al mondo che abbiamo creato. Stiamo entrando in una fase completamente nuova della storia dell’umanità, abbiamo creato un mondo in cui vengono tranquillamente soddisfatti i nostri bisogni primari di sopravvivenza e abbiamo, in più, accesso a un numero elevato di funzioni altamente sofisticate. Abbiamo a portata di mano così tante droghe e occasioni di rinforzo2 che siamo diventati tutti passibili di sviluppare dipendenza. Questo è il paradosso dell’abbondanza: il fatto che l’avere così tanto possa trasformarsi in qualcosa di negativo. È necessario capire come elaboriamo il piacere e il dolore per capire in che modo questo mondo di abbondanza è fonte di grandi stress e infelicità. Credo quindi che sia un problema universale. È un problema senza precedenti, qualcosa che tutti noi dobbiamo affrontare se vogliamo capire come navigare nell’ecosistema che abbiamo creato.

 

D: Lo studio scolastico e universitario si trova a competere con i social network, come può diventare più attraente? C’è bisogno che scuola e università “scatenino” dopamina?

R: Il modo in cui abbiamo cercato di adattarci a questo fenomeno nelle scuole e a tutti i livelli di istruzione è stato cercare di essere sempre più brillanti. Professori e professoresse oggi devono essere molto più coinvolgenti, più interessanti, devono usare video, immagini e supporti multimediali, con lezioni sempre più brevi perché i tempi di attenzione sono sempre più corti. È così che abbiamo cercato di rispondere agli studenti, ragazzi e ragazze che stanno letteralmente scomparendo in Internet, media con cui – tra l’altro – noi insegnanti non saremo mai in grado di competere. L’approccio che abbiamo adottato non funziona, non funzionerà mai. Noi docenti non saremo mai intriganti come Internet!

Quello che dobbiamo fare è invece creare spazi senza dispositivi digitali ma liberi per l’apprendimento. Vale a dire che dobbiamo mettere alla porta i nostri smartphone, lasciarli fuori dalle aule e riconquistare spazi dove possiamo esercitare l’attenzione, dove siamo pienamente presenti, concentrati gli uni sugli altri, su chi insegna, sul compito da svolgere. Se lo facessimo come collettività e lo rendessimo obbligatorio per tutti, otterremmo 2 risultati:

  1. assenza di FOMO3, perché se nessuno nella stanza ha un dispositivo, nessuno può perdersi qualcosa che qualcun altro sta guardando (attenzione: grazie ad alcuni studi sappiamo che anche senza il proprio dispositivo, la sola presenza di altri smartphone è fonte di distrazione, facciamo allora in modo che la disconnessione sia qualcosa che tutti facciano)
  2. una situazione realmente attraente per le persone, cosa che possiamo costruire solo senza i nostri dispositivi perché è così che possiamo essere pienamente presenti, creando le condizioni per investire le energie creative l’uno nell’altro e calandoci totalmente nel momento che viviamo.

Tutti noi ricordiamo quella sensazione di voler essere assieme ad altri esseri umani nella stessa stanza, nel concreto della vita reale, dopo i lunghi periodi di isolamento all’epoca del COVIS-19, no? Bene, non dimentichiamo che per farlo dobbiamo distaccarci dai nostri dispositivi e separarcene realmente, fisicamente.

La tecnologia è davvero meravigliosa ma il modo in cui ci connettiamo con le persone che sono insieme a noi in una stanza è diverso ed è qualcosa di cui tutti hanno bisogno. Abbiamo un bisogno disperato di cogliere le microespressioni, gli odori, il modo in cui le persone si muovono, come si dispongono nello spazio… Non possiamo rimanere solamente nelle nostre piccole cellule virtuali.

 

D: C’è qualcosa che, come società, tentiamo affannosamente di evitare: il dolore. Lei suggerisce invece che il dolore sia qualcosa di importante, perché?

R: Perché siamo predisposti per il dolore, siamo cablati per il dolore. Evitare del tutto il dolore o l’attrito nella vita non è salutare. E il dolore è legato al corpo, per questo dovremmo iniziare a pensare a come introdurre nuovamente la dimensione della fisicità. Oggi conduciamo un’esistenza quasi “disincarnata”, lontano dalla fatica e dal dolore del corpo; l’unica situazione in cui siamo veramente fisici è quando mangiamo e quando facciamo sesso (è probabilmente per questo che le persone sono ossessionate dal mangiare e dal fare sesso). Abbiamo però bisogno della fisicità, degli sbocchi che ci fornisce, di sapere cosa sia il dolore per comprendere al meglio cosa sia il piacere, questo può darci grande equilibrio.

 

D: Su Orientazione abbiamo parlato di autobiografia, lei racconta che le parole con cui si descrive la propria vita non sono mai neutre…

R: Ho passato la mia vita professionale ad ascoltare le storie delle persone, capendo che la chiave non è solo il contenuto delle storie, ma anche il modo in cui queste vengono raccontate. Sono convinta che esistano narrazioni curative, modi in cui ci raccontiamo che sono utili e ci aiutano ad andare avanti. Poi ci sono narrazioni distruttive, cioè modi di raccontare la nostra storia che non sono utili. Una delle cose principali che ho notato nel mio lavoro è che quando le persone raccontano la storia della loro vita narrando vicende in cui sono sempre vittime di qualcosa di esterno a loro, queste persone non stanno bene con sé stesse; non miglioreranno.

Le persone subiscono traumi, è vero, ma se ci si blocca su quel trauma e non si trova un modo per andare avanti, non si riuscirà mai a superarlo. E uno dei modi principali per andare avanti è quello di riconoscere che parte di ciò che abbiamo fatto ha contribuito a creare quella situazione. Si tratta quindi di fare la cosa più difficile: guardare ai nostri difetti caratteriali, alle cose che abbiamo fatto di sbagliato e di cui ci vergogniamo; si tratta di ammetterlo e permetterci di entrare in contatto con la nostra coscienza, provando rimorso e rimpianto, chiedendo scusa e cercando di fare ammenda, ove possibile.

 

D: Nella sua esperienza clinica, ha mai incontrato casi di dipendenza da studio?

R: Certo, mi è capitato di incontrare persone che si concentrano in modo ossessivo sui risultati. Il risultato è qualcosa di esterno, che si traduce in voti, premi, borse di studio… Beh anche Stanford è piena di questo tipo di persone “workaholiche4, per le quali stacanovismo e risultati diventano una forma di dipendenza.

 

Grazie quindi alla professoressa Lembke per la disponibilità e per i consigli. Fra tutti, quello di creare in classe piccole oasi di disconnessione digitale, è forse il più prezioso, perché ci riporta indietro, all’essenza della nostra umanità. Una scuola attraente (e più capace di sostenere nel momento della scelta universitaria) è allora sì quella che sa integrare le nuove tecnologie ma è anche quella che valorizza il tratto umano delle persone, dando nuovo significato al silenzio e facendo scoprire il ruolo fondamentale – perché no? – della noia. Perché proprio la noia? Beh, perché la parola “noia” che oggi traduciamo legandola all’ozio monotono, deriva dal latino in odium, che indica ciò che si odia, ed è proprio affrontando ciò che è “in odio” (lo stare senza lo stimolo continuo dei social network) che è possibile aiutare ragazzi e ragazze a entrare in una nuova “era della dopamina”, un’era a misura di persona.

 



1 La dopamina (il cui nome chimico è 4-(2-amminoetil)benzene-1,2-diolo) è un neurotrasmettitore, vale a dire una sostanza che permette ai neuroni di comunicare. È una delle responsabili dei processi legati al piacere e alle aspettative di ricompensa ed è coinvolta nella formazione dei meccanismi di dipendenza (i social network sono progettati per stimolare la produzione di dopamina e generare, potenzialmente, una forma di dipendenza). Si lega anche ad altre funzioni come sonno, attenzione, memoria, umore, motilità intestinale, secrezione di insulina.


2 In psicologia il rinforzo è positivo (una ricompensa che segue a un’azione) o negativo (l’allontanamento o sottrazione di una situazione spiacevole). Un esempio di rinforzo positivo è il caso-studio di Skinner, che insegnò, tramite ricompensa, ad alcuni topolini il sistema per ottenere cibo: premendo una levetta con le zampe, i topolini avevano una razione di semi; lamentare mal di testa ed essere sistematicamente dispensati dalle interrogazioni è invece un esempio di rinforzo negativo (ci si sottrae da qualcosa che si teme). In psicologia si parla anche di rinforzo “intermittente”, per esempio in riferimento ai social network che (conoscendoci a fondo) ci presentano sapientemente contenuti euforizzanti intervallati da una sequenza di contenuti poco interessanti, tenendoci incollati ai dispositivi in attesa della “ricompensa”.


3 La FOMO (Fear Of Missing Out) è la paura di esser tagliati fuori, fenomeno che si manifesta in chi frequenta in modo massiccio e costante i social network. La FOMO si esplica in sensazioni d’ansia che induce chi ne è vittima a controllare continuamente le notifiche in attesa di riscontro da parte dei follower, maturando inoltre la convinzione che una – seppur breve – assenza dallo scenario digitale possa far correre il rischio di perdere avvenimenti importanti.


4 Con il termine workaholic si indica la sindrome di dipendenza dal lavoro (work addiction). Le persone workaholiche lavorano oltre le ore richieste, non si distaccano mai dal proprio ruolo, arrivando a minare qualità della vita, salute, relazioni sociali.